Otto Pankok nacque il 6 giugno 1893 a Mülheim-Saarn nella Ruhr (Germania). Suo padre faceva il medico e la madre — che era stata in gioventù una buona ritrattista — fu la prima guida per il figlio. La sala d’aspetto del padre — sempre piena di povera gente che chiedeva assistenza — ebbe un ruolo importante nella sua formazione umana ed artistica, tanto che le sue prime esercitazioni pittoriche avvennero proprio nelle abitazioni dei poveri del vicinato e i ritratti di bambini zingari furono le sue prime opere (oggi conservate in gran parte al Museo di Mülheim).
Dopo la scuola, il giovane Otto frequentò le accademie di Düsseldorf e di Weimar ma ne rimase deluso per la sua incapacità di occuparsi di modelli e temi che gli erano estranei. Fu così che si ritirò per un anno intero in un villaggio dell’Oldenburg, a vivere le stesse condizioni miserevoli di quei contadini, a contatto diretto con la loro fatica per strappare alla terra quanto necessario per un ben minimo sostentamento.
Lo scoppio della prima guerra mondiale — alla quale egli partecipò come ufficiale di fanteria - fu per il pittore un motivo di profonda lacerazione e della sua esperienza bellica egli scrive …Siamo stati spinti alla disperazione, quegli spari hanno spento ogni scintilla nel nostro cervello. A guerra conclusa egli incontrò e presto sposò Hulda Droste, giornalista a Düsseldorf, che condivise con l’artista lo spirito di solidarietà verso i lavoratori e le classi meno abbienti. La coppia divenne ben presto un fulcro di irradiazione spirituale, mentre l’attività del pittore si fece ancora più intensa e gioiosa.
I suoi numerosi viaggi all’estero di quegli anni sono occasioni per immergersi nei molteplici paesaggi del continente europeo, ma anche per cogliere il volto dell’uomo e della sua condizione sempre mutante. Perennemente alla ricerca della verità, lontano dai conformismi sia di marca cristiana che socialista, egli visse esperienze umane intense — che ritroviamo nella sua arte — come la convivenza con i disoccupati della periferia di Düsseldorf, con i quali condivise gioie e dolori fino ai tragici giorni dell’avvento al potere di Hitler. Della stessa epoca è il ciclo dedicato agli zingari. In quei chiaroscuri, che recano in gran parte la data del 1933, Pankok rappresentò la vita di quei nomadi che ben presto subiranno la stessa sorte degli ebrei, dietro le siepi di filo spinato dei campi di concentramento.
L’amore per l’uomo, dunque, fu uno dei temi ispiratori della sua poetica. Ma la sua non è certo e soltanto una pittura di denuncia quanto piuttosto una pittura animata dal desiderio di verità e di giustizia. La sua partecipazione al destino degli esseri che incontra è tale che egli ha bisogno di sentire e vivere le loro storie prima di descrivere le loro condizioni, come nel caso delle figure tratte dal sottoproletariato spagnolo realizzate nel 1929 che a fianco del ritratto propongono le biografie dei modelli e che saranno poi raccolti nel volume “Stern und Blume”.
Allo stesso modo, la libertà di spirito libero che lo distingueva non poteva piegarsi a quel regime Nazista che intanto andava imponendosi in Germania. Pankok, infatti, appartenne a quell’altra Germania fatta in gran parte di artisti e scrittori che costituirono in un certo senso, la riserva morale della infranta Resistenza al nazismo.
Egli da parte sua aveva cominciato a manifestare la sua solidarietà ai perseguitati ed in segno di protesta aveva ritirato i suoi quadri dalle mostre, provocando la reazione delle autorità che tenevano d’occhio la sua casa e gli inflissero il divieto di dipingere e vendere le sue opere. La sua battaglia contro la brutalità nazista prese il titolo di “Die Passion” e fu un ciclo di disegni sulla vita di Cristo e il cui libro prodotto nel 1936 fu dato alle fiamme dai nazisti.
Sopravissuto al regime nazista — nonostante le persecuzioni — per Pankok cominciò nel secondo dopoguerra la battaglia delle Mostre (come alla Biennale di San Paolo del Brasile, o alla personale di Lubiana, entrambe del 1953, o nel Heimatmuseum di Gelsenkirchen) e i quadri del “tempo maledetto” — così egli indicava il periodo del Regime - suscitarono violente reazioni tra i nostalgici.
Aveva assunto, intanto, l’incarico di docente all’Accademia di Düsseldorf da dove continuò la sua lotta contro quelli che egli riteneva i principali mali dell’arte e dell’umanità e proponendo la sua didattica ispirata a principi taglienti come può essere un credo: non dipingere per esporre; ritieni un albero più importante di una invenzione di Picasso; fidati dei tuoi sogni; non adorare i tuoi quadri buoni.
Aveva ripreso anche i suoi viaggi e lo attraeva specialmente la Francia del Sud (e la Provenza divenne per lui il paradiso dei sogni) ed ebbe occasione di scoprire l’umanità semplice e gli scabri paesaggi della Macedonia e del Montenegro.
Fino all’ultimo continuò il suo impegno civile, opponendosi, ad esempio, alla divisione della Germania e perpetuando nell’arte i valori di una vita (è del 1950, ad esempio, quel “Cristo che spezza il fucile” che fu molto apprezzato da Mons. Montini). Nel 1955 uscì “Begegnungen”, una galleria di 32 ritratti di scrittori, artisti (tra i quali i prediletti Rembrandt e Millet), poeti e pensatori, che egli volle comporre quale omaggio vivo e palpitante a tutte quelle persone che lo avevano aiutato a trovare sé stesso, a tutti quei ribelli — l’adorato Van Gogh tra i primi — che hanno fatto piazza pulita del ciarpame del vecchio mondo.
Otto Pankok si spense il 20 ottobre del 1966 a Wesel.
L’arte di Otto Pankok - scriveva la moglie, prima testimone e critica della sua produzione — fa dell’istante il documento dell’eterno. La sua arte, infatti, nasce a contatto con la realtà e non si limita a riprodurre semplicemente gli stimoli ottici provenienti dall’esterno, quanto piuttosto ad esprimere un mondo che proviene dall’interno.
La tematica pankokiana è sì attratta dal mistero della povertà, ma la sua pittura spazia alla ricerca del mondo dell’Uomo e della sua verità, un mondo che la peggiore barbarie non riuscirà a distruggere. Questo volto, col suo dolore e la sua gioia, è una delle realtà vive a cui sempre ha attinto l’arte del pittore, trasformandosi in sorgente perenne da cui zampillano quei ritratti dalla notevole forza di penetrazione psicologica, nella distribuzione quasi magica delle luci.
Altro fatto essenziale nell’arte di Pankok è costituito da una dimensione etica per cui il suo amore e la comprensione per il soggetto diviene un motivo essenziale come se il suo io si mescolasse agli animali ed alle cose, integrandosi nelle storie degli uomini e vivendo la loro vita, solo così egli riesce a cavare nella sua arte quelle rappresentazioni che sanno di verità tanto che anche nell’autoritratto egli tratta il suo volto “come un pezzo di natura che si lascia crescere” (così si espresse Worringer).
Con la stessa penetrazione è sorprendente inoltre come l’artista riesca a cogliere la vita silenziosa degli alberi e dei boschi che rappresentano gli altri temi prediletti, tutti accomunati da un desiderio di verità che conduce l’artista a raggiungere l’essenza delle cose.